Categoria: LEGGERE
Paolo Pombeni, Che cosa resta del '68, Il Mulino 2018, pp. 128, € 12,00
Ce n’est qu’un debut continuons le combat, è la conclusione (positiva) delle riflessioni dello storico Paolo Pombeni sulla rivoluzione del Sessantotto. Una rivoluzione sostanzialmente intellettuale, degli intellettuali.
Una rivoluzione interrotta. 
Pombeni mette il dito sulle contraddizioni e sulle ambiguità del movimento sessantottino che, se riuscì nella pars destruens del sistema che aveva condotto l’Italia al miracolo economico e alla trasformazione sociale degli anni cinquanta e sessanta, non mise mano ad una difficile e complicata pars costruens, che costituisce infatti la sua formidabile eredità. 
E’ urgente, per esempio, ridare legittimità al sistema dell’istruzione e della cultura per fermare il declino del paese, ripristinando un principio di autorità necessario non solo per l’organizzazione della vita associata ma anche per tutto il sistema del sapere e della sua trasmissione.
“La presenza di genitori/avvocati dei figli che vogliono imporsi agli insegnanti è una realtà continuamente sperimentata e lamentata da chi ha figli o nipoti in età scolare, così come quella di insegnanti che trasformano la loro autorità nell’autoritarismo di chi vuole a sua volta imporre visioni di fatto personali e scarsamente fondate, che non sa motivare in modo convincente” (p. 26).
Pombeni non si sottrae all’analisi di uno dei miti fondanti del Sessantotto italiano: l’operaismo. Denuncia da un lato il decadimento del sindacalismo confederale in una difesa spesso solo corporativa dei diritti dei lavoratori, e, dall’altro, la svalutazione del valore del lavoro nell’ideologia di una società impregnata dal valore del denaro. La vittoria del “mercato” nel mondo globale ha inevitabilmente avuto come conseguenza una vittoria del “capitale” (finanziario) e una sconfitta del “lavoro” (precario). Ma il Sessantotto è entrato poco in questa faccenda. La trasformazione del lavoro da valore “alla base di ogni società civile e politica” (p.41) nel “posto” che fornisce un reddito senza o poco lavorare è, a nostro avviso, il frutto avvelenato dell’ideologia craxi-berlusconiana che da dagli anni Ottanta ha governato e governa il nostro paese. A questa ideologia e alla mentalità che ne è seguita va forse fatta risalire la perdita di quella certa rispettabilità che la politica, il “lavoro politico”, si erano conquistati nel dopoguerra e avevano conosciuto nella travolgente passione delle lotte sessantottine.
Tra le eredità fortemente positive del Sessantotto Pombeni non dimentica la questione di genere. “Ridurre però tutta la problematica al cambiamento dei costumi nei rapporti sessuali significa immiserire una questione di grande portata e che non conobbe successive restaurazioni: la definizione di un nuovo ruolo della donna” (p. 68). La nuova posizione della donna nella società italiana e le mutazioni che questa ha comportato e comporta per i ruoli maschili sono tra i grandi problemi all’ordine del giorno ancora oggi della cultura di massa del paese. 
Continuons le combat! “Non è che l’inizio…”. 
Pombeni invita le nuove generazioni a riprendere la lotta, non solo per la scuola, la cultura, il lavoro, le donne, la buona politica, ma “per dominare razionalmente una transizione storica”, quella italiana, che la generazione del Sessantotto “non è riuscita ad avviare se non in minima parte” per approdare finalmente ”a nuove forme di equilibrio per la vita degli individui e delle molteplici comunità in cui vivono” (p. 127).